COLTIVAZIONI IDROPONICHE

I demografi prevedono che nell’anno 2050 la popolazione umana avrà raggiunto i 9,5 miliardi. E molti pensano che se livello di vita dei paesi poveri dovesse allinearsi agli standard consumistici di quelli ricchi, la Terra non sarebbe più in grado di soddisfare il fabbisogno alimentare. Molti ambientalisti dicono che è già stata superata la capacità del nostro pianeta e che bisogna diminuire i consumi dei paesi ricchi fino al livello di quelli più poveri.
In realtà, come è già avvenuto nei paesi più sviluppati, la modernizzazione dell’agricoltura ha aumentato la produzione del cibo più dei consumi, col risultato che l’impatto sull’ambiente delle attività agricole in realtà è diminuito. Lo dimostra un paese come l’Italia, che è rappresentativo dei paesi più sviluppati e oggi anche di quelli emergenti più avanzati. Proprio nel momento in cui abbiamo raggiunto il massimo livello della popolazione e dei consumi pro capite, abbiamo assistito ad un grande recupero della natura: la superficie dei boschi è raddoppiata, i boschi stessi sono molto meno sfruttati e al bosco bisogna aggiungere molte aree aperte in zone di montagna che una volta erano sfruttate da un’agricoltura di sussistenza e che oggi sono tenute a prato dagli erbivori selvatici. Perché nel frattempo c’è stato anche il ritorno della fauna selvatica.
Quindi queste preoccupazioni non sono giustificate, perché sono proprio la crescita e lo sviluppo le condizioni per un sostanziale alleggerimento della pressione antropica sul territorio. Ma con le coltivazioni idroponiche potremo ottenere ancora molto di più, perché esse potrebbero aumentare le rese per ettaro di altre decine o addirittura centinaia di volte. Infatti non c’è quasi limite agli aumenti che si potrebbero ottenere con queste sofisticate tecniche agronomiche, oggi ancora poco diffuse ma già ampiamente sperimentate e praticate da alcune decine di anni.


Le coltivazioni fuori suolo
L’agricoltura fuori suolo in serre chiuse è costituita dalle coltivazioni idroponiche, aeroponiche e goccia a goccia. Nelle coltivazioni goccia a goccia le piante vengono coltivate in contenitori di materiali inerti e leggeri come la vermiculite, un substrato che può essere riutilizzato per anni, e sono irrigate tramite un sistema goccia a goccia con acqua arricchita di sali minerali. Nelle coltivazioni aeroponiche le piante sono sospese in un’atmosfera satura di vapore acqueo e nutrienti. Infine nelle coltivazioni idroponiche le piante hanno le radici in contenitori riempiti di acqua e fertilizzanti.
Queste tecniche di coltivazione richiedono il completo controllo di tutte le condizioni fisiche e ambientali in cui vivono le piante e dei fattori che ne influenzano la crescita. E i fattori da cui dipende la crescita delle piante sono numerosi: la temperatura dell’aria e delle radici, l’intensità della radiazione luminosa, la disponibilità di acqua e nutrienti, il tasso di anidride carbonica, il pH, la resistenza ai parassiti ecc.
Molte piante in eccesso di luce disfano i primi prodotti della fotosintesi fabbricati da altri fotoni. Quindi non sono in grado di sfruttare una luce molto forte (una limitazione dovuta alla insufficiente disponibilità di anidride carbonica). Altre invece, come la canapa, il mais, il sorgo e numerose piante tropicali, hanno un’alta efficienza fotosintetica e riescono a sfruttare anche una luce molto intensa. Scegliere le piante giuste e nelle giuste combinazioni, e ricostruire artificialmente le condizioni ottimali per la crescita, non è compito facile. E’ necessario anche risolvere problemi tecnici e organizzativi complessi. E poi bisogna scongiurare il rischio che errori o incidenti, come l’interruzione della corrente elettrica, portino alla perdita dell’intero raccolto. Ma il vantaggio delle coltivazioni indoor è che ci si può svincolare dalle costrizioni ambientali che condizionano e limitano la produzione, e che si possono evitare gli eventi meteorologici dannosi: tempeste, gelate, allagamenti, siccità, parassiti ecc. C’è anche il vantaggio che si può coltivare un numero maggiore di piante per unità di superficie, e cumulare i diversi fattori che favoriscono la crescita, fino a moltiplicare la produttività per ettaro di qualche decina di volte. E con serre chiuse realizzate in edifici a più piani, la produzione potrebbe aumentare anche di centinaia di volte. Infine si potrebbero ottenere molte importanti sinergie, allo scopo di ridurre il consumo di energia, acqua, fertilizzanti e antiparassitari. Ma il vantaggio principale rimane il risparmio di prezioso terreno agricolo, che potrebbe essere destinato ad altri usi più sostenibili, oppure restituito alla natura.


Lo stato dell’arte e le prospettive future
Per quanto riguarda il livello di sviluppo delle tecniche di coltivazione fuori suolo, si potrebbe dire che siamo appena agli inizi, e questo nonostante che le coltivazioni idroponiche siano già praticate da decine di anni specialmente per la coltivazione di fiori e ortaggi. I costi iniziali di impianto sono alti, i problemi gestionali complessi, e le varietà di specie coltivate ancora poco numerose. Ma quando si trova la giusta combinazione di piante e soluzioni organizzative e logistiche, queste coltivazioni sono già oggi competitive per le produzioni agricole di maggior valore, che sono appunto i fiori e gli ortaggi. Lo dimostra per esempio la Eurofresh Farms, un’azienda che da oltre quindici anni coltiva idroponicamente diverse varietà di pomodori, cetrioli e peperoni su una superficie di 130 ettari nel deserto dell’Arizona. E che ha anche ottenuto per molti anni consecutivi un riconoscimento per avere prodotto i più saporiti pomodori d’America.
Le piante sono coltivate in file ravvicinate e su due livelli. Poiché le radici non hanno bisogno di espandersi nel terreno, se ne possono mettere il doppio per unità di superficie, cioè per ogni livello. Le piante inoltre crescono più velocemente perché non devono “perdere tempo” a radicarsi nel terreno, e nel corso di 12 mesi si possono fare quattro raccolti. Complessivamente la produttività per ettaro è almeno 15 volte più alta, e 130 ettari di deserto hanno potuto sostituire una ventina di chilometri quadrati di fertile terreno agricolo. L’azienda ha potuto quindi risparmiare nell’acquisto del terreno, con anche il vantaggio di avere luce e calore sufficienti per protrarre la coltivazione a tutti i 12 mesi dell’anno.
Ma i vantaggi, che vanno ben oltre la pura convenienza economica, non si fermano qui. In questa tipologia di coltivazioni c’è anche un gran risparmio di acqua, fertilizzanti e antiparassitari.
Mentre nelle coltivazioni in campo aperto le piante utilizzano solo una minima parte dell’acqua e solo una percentuale minore dei fertilizzanti sparsi nel terreno, nelle coltivazioni indoor questi sprechi non ci sono più, perché servono solo l’acqua e i fertilizzanti realmente assorbiti dalle piante. Ed è grazie al risparmio di acqua che questa coltivazione può essere fatta in pieno deserto. Inoltre si può fare del tutto a meno degli antiparassitari, perché non ci sono più i parassiti che provengono dal terreno o dall’ambiente circostante. Un’altra coltivazione idroponica su vasta scala è stata realizzata in Gran Bretagna su una superficie di 91 ettari per la produzione di diverse varietà di ortaggi.
Ma le combinazioni di piante coltivabili fuori suolo sono al momento ancora limitate. Sono tantissime le piante che vengono coltivate in campo aperto, da orto, da frutta e da cereali, che in teoria potrebbero essere coltivate idroponicamente o col sistema goccia a goccia, e che potrebbero essere studiate a questo scopo. E oltre a tutte le varietà attualmente coltivate, ce ne sono altrettante che non vengono seminate o messe a dimora perché non commercialmente interessanti, ma che pure potrebbero dimostrarsi adatte a questa nuova tecnica di coltivazione. Trovarne delle altre, però, è solo questione di ricerca e sperimentazione. Col tempo le combinazioni interessanti aumenteranno, così come la conoscenza delle condizioni di vita dei vegetali e le esperienze di coltivazioni in ambiente chiuso.


Cumulare i fattori di crescita: l’illuminazione artificiale
Partendo da dove siamo arrivati oggi, anche la produttività di un’azienda come la Eurofresh Farms potrebbe ancora raddoppiare. Infatti se si aggiungesse al sistema un impianto per l’illuminazione notturna, la crescita vegetativa potrebbe proseguire per tutte le 24 ore. Il bilancio nelle 24 ore è dato dalla crescita vegetativa nelle ore di luce, grazie alla creazione di nuova massa vegetale tramite la fotosintesi, meno la decrescita delle ore notturne. Di notte o al buio la fotosintesi si interrompe, ma le piante sono esseri viventi che hanno un loro metabolismo che consuma energia con la traspirazione, e quando non c’è la fotosintesi, la massa vegetale si riduce. D’inverno, quando le ore di luce sono molte di meno di quelle notturne, complice anche la bassa temperatura che rallenta la crescita, la decrescita supera la crescita. Per questo molte piante hanno adottato la strategia di privarsi in inverno delle foglie, perché questo riduce quasi a zero le attività metaboliche e quindi la perdita di massa vegetale. Alle alte latitudini, man mano che ci si avvicina al circolo polare, le in estate giornate si allungano mentre le notti si accorciano, fino ad arrivare, al di là del circolo polare, al giorno di 24 ore, oppure al giorno e alla notte di sei mesi. Poiché in estate oltre il circolo polare c’è una crescita continua e non c’è decrescita, anche se le altre condizioni ambientali sono meno favorevoli, per sei mesi all’anno sia negli ecosistemi marini che in quelli terrestri c’è una ricchezza di vita paragonabile a quella delle regioni tropicali.
Lo stesso risultato lo si potrebbe ottenere nelle coltivazioni indoor con l’illuminazione artificiale notturna, cioè si potrebbe prolungare la crescita vegetativa a tutte le 24 ore, e ottenere così più di un raddoppio della produzione.
Certo, introdurre un elemento in più significa anche aggiungere una complicazione in più: non tutte le piante sono adatte. Per esempio ci sono piante sensibili al fotoperiodo. Alcune, se la lunghezza delle ore di luce giorno per giorno non è quella giusta, non fioriscono. Bisogna quindi studiare, provare e sperimentare finché non si troveranno le piante più adatte e la migliore combinazione dal punto di vista della produttività, delle esigenze del mercato, e anche organizzativo e gestionale. Ma nel momento in cui si arriva ad una combinazione soddisfacente, si potrà più che raddoppiare un livello produttivo già elevatissimo.
Qualcuno però potrebbe obiettare che la qualità dei prodotti ottenuti con il “sole artificiale” non potrà mai essere la stessa delle coltivazioni in campo aperto. In realtà quello che conta è che la luce abbia le giuste frequenze luminose, che provengano dal Sole o da una lampadina. Identico discorso per i sali minerali: per le piante non fa nessuna differenza se i fertilizzanti provengono dal terreno o da una fabbrica chimica. Anche qui quello che conta è che ci siano tutti i sali minerali di cui la pianta ha bisogno. Del resto anche l’agricoltura tradizionale è altamente artificiale e si contrappone per questo agli ecosistemi naturali. Così come sono poco naturali gli animali di allevamento rispetto a quelli selvatici. Ma la qualità non è necessariamente peggiore, e può invece per molti aspetti essere migliore: migliore per la selezione delle razze, migliore dal punto di vista sanitario, nutrizionale ecc., oltre che per la produttività. E così come è preferibile mangiare pesce d’allevamento per alleggerire la pressione della pesca sui mari, scegliere questa agricoltura significa alleggerire la pressione esercitata sul territorio.
A questo punto l’impianto, con una produttività aumentata di una quarantina di volte e del tutto indipendente dalle condizioni atmosferiche, compresa la luce naturale e la temperatura, potrebbe essere localizzato in prossimità di un centro abitato, per esempio in una delle tante zone industriali abbandonate. In questo modo si potrebbero realizzare numerose importanti sinergie per aumentare ancora di più la convenienza di queste coltivazioni.


Sfruttare le sinergie
Innanzi tutto diminuiscono i tempi e i costi, sia economici che energetici, del trasporto delle derrate agricole. Con tempi più ridotti diminuirebbero le perdite di prodotto e gli ortaggi arriverebbero più freschi ai punti vendita. Diminuirebbe anche il numero dei passaggi dell’intermediazione commerciale. Attualmente la quota del prezzo finale che va al produttore è minima; tutto il resto rappresenta il costo dell’intermediazione. Se la produzione avviene vicino ai luoghi di consumo, questo costo potrebbe diminuire, con effetti positivi sia sul prezzo pagato dal consumatore, sia sulla remunerazione che va al produttore. Un’altra importante sinergia riguarda i fertilizzanti. Le cosiddette “acque grigie”, risultato della depurazione degli scarichi fognari, vengono riversate nei corsi d’acqua e poi nel mare, dove possono provocare fenomeni di eutrofizzazione. Un impianto costruito ai margini della città potrebbe usare più facilmente le acque grigie, riducendo a zero il consumo di fertilizzanti e diminuendo questa forma di inquinamento. In prospettiva tutte le acque grigie potrebbero essere usate come fertilizzante, cosa che consentirebbe il riciclo di una componente fondamentale dei rifiuti urbani.
Inoltre si potrebbe usare l’acqua di raffreddamento di una centrale elettrica per portare la temperatura degli ambienti indoor al livello ottimale, senza bisogno di costruire l’impianto nel deserto e senza ulteriori costi energetici. Infine per un impianto ubicato in zona urbana diventerebbe molto più semplice conferire gli scarti vegetali ad un inceneritore, o fra qualche anno ad un impianto per la trasformazione in biocombustibile, allo scopo di produrre una parte dell’energia che viene consumata.


L’anidride carbonica: il principale fattore di crescita
Un’altra importante sinergia, che questa volta serve ad aumentare ancora di più la produttività, riguarda la possibilità di utilizzare una parte degli scarichi di una centrale a turbogas per arricchire di anidride carbonica l’ambiente della serra. I fumi di una centrale a gas sono già molto puliti ma, se fosse necessario, quelli destinati alle serre potrebbero essere ulteriormente depurati.
L’anidride carbonica, oggi accusata di essere un pericoloso inquinante, in realtà è il principale fattore di crescita delle piante. Nelle ere geologiche passate il tasso di anidride carbonica dell’atmosfera è stato quasi sempre più alto di quello che conosciamo oggi, anche di molte volte. Per esempio nell’era Carbonifera il livello era forse 5 o 6 volte l’attuale. L’alto tasso di anidride carbonica, unito ad un’abbondante umidità e a una temperatura media più alta di alcuni gradi, dava vita ad una vegetazione arborea particolarmente esuberante, che ci ha lasciato in eredità dei ricchi depositi di carbon fossile. Negli ambienti chiusi si può aumentare artificialmente il livello dell’anidride carbonica, cosa che del resto è già pratica corrente nelle coltivazioni in serra. Bisogna anche ricordare che la crescita delle piante “consuma” anidride carbonica, che è necessario rimpiazzare per non dover assistere ad un calo della produzione.
La velocità di crescita delle piante aumenta al crescere del tasso di anidride carbonica. E la ricerca ha dimostrato che la crescita vegetativa continua ad aumentare fino a quando il livello della CO2 raggiunge le 10.000 parti per milione, l’1% dei gas atmosferici, più di 25 volte il livello attuale. Ma nelle serre non si va oltre le 1.000 / 1.500 ppm, perché a livelli più alti l’aria comincia a creare problemi alla respirazione. Già così però si ottengono considerevoli incrementi di produttività. Ma se durante la coltivazione e fino al raccolto non fosse necessaria la presenza di operatori umani, il tasso di anidride carbonica potrebbe essere portato a livelli molto più alti, cosa che moltiplicherebbe la velocità di crescita di diverse volte. Per ogni 100 ppm in più, la velocità di crescita aumenta di circa il 10%. Ma la crescita degli organi dove si accumulano i prodotti della fotosintesi (radici, tuberi, semi, frutti ecc.) di solito è ancora più veloce.
Infine c’è anche chi propone di realizzare delle coltivazioni idroponiche in edifici di trenta piani, cosa che moltiplicherebbe la produttività per ettaro di altrettante volte! (vedi l’articolo “L’ascesa dell’agricoltura verticale” pubblicato da Le Scienze nel numero di gennaio 2010).
In definitiva, se si potessero cumulare tutti i fattori che aumentano la produttività, compresa l’illuminazione artificiale e un alto livello di anidride carbonica, ed effettuare le coltivazioni in edifici di decine di piani, si potrebbe arrivare, almeno in teoria, a moltiplicare la produttività per ettaro di migliaia di volte.


Un uso più sostenibile del territorio
Ad ogni modo, almeno per il momento, questo non è necessario. Sarebbe sufficiente adottare i fattori incrementali di volta in volta più convenienti per arrivare ad aumenti medi della resa per ettaro “anche solo” di qualche decina di volte, e localizzare queste coltivazioni vicino alle città in modo da sfruttare tutte le possibili sinergie. Altrettanto importante è aumentare la varietà delle piante coltivabili fuori suolo. Già solo così le superfici attualmente impegnate da coltivazioni si potrebbero ridurre a poca cosa. Del resto in Europa la crescita della produttività agricola e dei redditi avvenuta nel dopoguerra, che ha reso non più conveniente lo sfruttamento di molti terreni marginali, ha aumentato dal 50% al 100% la superficie dei boschi.
In Italia i boschi sono raddoppiati e oggi la percentuale del suolo non sfruttato dalle attività umane è del 55 / 60 %. Ma con le coltivazioni indoor nel giro di qualche decennio si potrebbe arrivare all’85 / 90 %. Sarà necessario imparare a coltivare in ambienti chiusi le principali varietà di fiori e ortaggi, gran parte delle piante da frutto, e persino i cereali.
Per esempio il pesco sopporta di essere coltivato in luce artificiale continuativamente per tutte le 24 ore, e sarebbe in grado di produrre i suoi frutti tutto l’anno. La sua coltivazione potrebbe essere abbinata a qualche altra pianta da frutto di piccola taglia o arbustiva (o a qualche pianta da orto). Se venisse coltivato in serra vicino alle città il frutto, facilmente deperibile, potrebbe essere raccolto quando è maturo, non quando è ancora quasi acerbo, come si fa di solito per evitare che vada a male. Inoltre potremmo assaporare questo frutto maturo e profumato anche durante l’inverno!
In ogni caso quello che serve è tanta ricerca e sperimentazione, allo scopo di individuare le piante e le combinazioni di piante adatte, e per organizzare sempre meglio i cicli di produzione. Se a qualcuno interessa alleggerire l’impatto dell’agricoltura sul territorio, la prima cosa da fare è investire di più nella ricerca.
L’interesse per le coltivazioni idroponiche è già oggi molto grande, e tra qualche decina d’anni l’agricoltura fuori suolo potrebbe aver sostituito la maggior parte delle colture tradizionali. Ma cosa ne sarà dei terreni agricoli “liberati”?
Una parte potrebbe essere destinata all’ampliamento delle riserve naturalistiche già esistenti. Nelle zone di pianura i parchi naturali sono sempre di estensione limitata. Essi potrebbero gradualmente estendere i propri confini man mano che nuovi terreni verranno lasciati liberi dalle coltivazioni. Ma la maggior parte degli attuali terreni coltivati potrebbe essere destinata ad una agricoltura più verde e sostenibile. Per esempio potrebbero essere piantati degli alberi di noce, che garantirebbero un reddito immediato con il raccolto autunnale, e un reddito a lunga scadenza sotto forma di pregiato legname da falegnameria. A terra potrebbero essere allevati in stato di semi libertà animali come il cinghiale, il daino, il bufalo ecc. La campagna si riempirebbe di boschi, diventerebbe più verde, più bella, e forse anche più remunerativa. Nello stesso tempo l’economia renderebbe facilmente disponibili dei prodotti alimentari considerati di migliore qualità. Discorso che può valere anche per le noci.


Un’alimentazione migliore
Attualmente la base della nostra alimentazione è costituita dai cereali. Ma come alimento base le noci arrostite sarebbero migliori. In fin dei conti è solo da 10.000 anni che viene praticata l’agricoltura e che i cereali sono diventati la nostra principale fonte di calorie. E’ a causa di questo fatto, e di un adattamento fisiologico ancora incompleto, che molti manifestano intolleranza al glutine e devono evitare i prodotti a base di cereali. Le noci invece fanno parte dell’alimentazione umana da molto più tempo, che si misura in milioni di anni. Che le noci siano un alimento molto antico, lo dimostra il fatto che le possiamo mangiare crude, e le possiamo mangiare crude perché le abbiamo incluse nella nostra dieta molto tempo prima che fosse scoperto l’uso alimentare del fuoco centinaia di migliaia di anni fa. Ciò significa che verso di esse abbiamo un adattamento molto più profondo, e pertanto ci dobbiamo aspettare non solo meno inconvenienti, ma anche dei veri e propri benefici per la salute.
Probabilmente abbandonare i cereali per le noci arrostite migliorerebbe le prestazioni fisiche e lo stato di salute generale, e questa dieta quindi potrebbe essere adottata non solo dai celiaci che non tollerano il glutine, ma anche dagli atleti e da chiunque desideri migliorare la propria fitness.
Se si potesse guardare nel futuro come cercano di fare i migliori racconti di fantascienza, probabilmente vedremmo tra qualche decina d’anni non un ambiente devastato, ma una natura più rigogliosa e una campagna sempre più verde, insieme a una più alta qualità della vita.
Del resto l’aumento della produttività agricola avvenuto del dopoguerra ha già reso più abbondante e ricca la nostra dieta. Nello stesso tempo ha liberato molti terreni una volta impiegati da un’agricoltura e da una pastorizia di sussistenza, che oggi sono stati riconquistati dal bosco. Ma questa volta la diffusione delle coltivazioni idroponiche farà sì che vengano restituiti alla natura i terreni migliori, ricchi e profondi, della pianura.