Il lungo percorso dalla povertà al benessere moderno
Una condizione umana miserabile e piena di ingiustizie.
Oggi noi viviamo in una società benestante, abbiamo un’alimentazione ricca e varia, abitiamo in case confortevoli, disponiamo di automobili, elettrodomestici, scuole e ospedali. Possiamo viaggiare, tenerci informati, coltivare degli hobby nel tempo libero e consideriamo tutto questo normale. Ma tutto questo non è poi tanto normale, perché la nostra società è un’eccezione. Quella in cui viviamo è infatti l’unica nella storia che è riuscita a sconfiggere la povertà. In tutte le altre epoche e in tutte le altre civiltà, infatti, la generalità della popolazione viveva in condizioni di povertà assoluta.
Molti però non se ne rendono conto e sono convinti che la società preindustriale fosse armoniosa, idilliaca (i bei tempi andati) e in equilibrio con la natura, e che sia stata la società moderna a frantumare questa armonia e a generare ogni sorta di problemi. Ma si tratta di un grosso errore di prospettiva. Quella in cui viviamo, infatti, è l’unica società ad avere conquistato un alto livello di benessere, cioè che è riuscita a soddisfare i nostri bisogni principali.
Possiamo non essere d’accordo su quali siano i bisogni primari. Però possiamo metterci dentro un’alimentazione adeguata in quantità e qualità, una casa comoda, i principali comfort ed elettrodomestici, i mezzi di trasporto e la meccanizzazione che sostituiscono gli estenuanti lavori del passato. Ma oggi, tra le cose che consideriamo indispensabili, ci sono anche un buon livello di istruzione, dei servizi sanitari e di igiene pubblica, e poi viabilità, sicurezza, previdenza, giustizia ecc. Ma anche i diritti civili e politici, la libertà personale, la privacy, la tutela dell’infanzia, la parità tra i sessi, i diritti delle minoranze e altro ancora.
Ma se confrontiamo ciascuno di questi fattori, tra la nostra società e quelle del passato c’è un abisso. Si può partire dalla “Storia economica dell’Europa preindustriale” di Carlo M. Cipolla, che è un riassunto dello stato degli studi su questo argomento. Le citazioni che seguono sono prese da questo libro.
Quella che emerge è una povertà così estrema che non riusciamo più nemmeno ad immaginarla. E’ sufficiente qualche esempio. Nel Medioevo non c’erano le posate, e tutta la famiglia mangiava con le mani in un’unica scodella. Nelle case non c’erano i camini, anche perché i tetti erano di paglia e avrebbero potuto incendiarsi. Per cucinare si accendeva il fuoco sul pavimento al centro della stanza. I primi camini, addossati dall’esterno ai muri della casa e accessibili dall’interno, risalgono a circa il 1200. Non c’erano i gabinetti. Il primo water closet fu approntato per la regina Elisabetta I d’Inghilterra verso la fine del ‘500. Si portavano sempre gli stessi vestiti. Ci si puliva il naso con le mani. Non ci si lavava praticamente mai. Anche il Re Sole, che forse per questo si ricopriva di strati su strati di profumi. In compenso fu uno dei primi ad usare il fazzoletto da naso.
Ma questi sono dettagli. Il problema principale di ogni epoca è sempre stato quello del cibo e l’Europa che precede la rivoluzione industriale non fa eccezione. Per chi vive o è vissuto nel XX e XXI secolo, è difficile immaginare cosa fossero la fame e le carestie dei secoli passati, quando “La massa viveva in uno stato di fame endemica sotto l’incubo permanente della carestia. La ragione era la bassa produttività agricola: per dieci che mangiavano pane, sette od otto dovevano produrre grano. Anche nelle annate migliori, la resa era al massimo 5 o 6 volte la semente impiegata. La terra rendeva poco perché le piante non erano selezionate, perché mancava il concime, gli attrezzi erano rozzi, gli antiparassitari sconosciuti.” (pag. 144).
Già in tempi normali la gente comune, in campagna e in città, spendeva quasi tutto il proprio reddito per il cibo, e anche così mangiava poco e male. Ma gli anni normali non erano la norma. In agricoltura non si sapeva come combattere i parassiti, tanto meno si sapeva come reagire alle annate avverse, e i raccolti andavano di frequente alla malora. “Quando il raccolto andava male e i prezzi dei commestibili si impennavano, anche spendendo tutto il proprio reddito l’uomo medio non riusciva a sfamare né sé stesso né la propria famiglia, e la gente moriva letteralmente di fame.” (pag. 39). Come per esempio a Busto Arsizio nel 1629, anno in cui la popolazione passò da 8.000 a 3.000 anime (pag. 187). Le carestie facevano aumentare rapidamente la massa dei mendicanti, falcidiavano la popolazione e favorivano la comparsa delle epidemie, in particolare dell’epidemia di peste, divenuta endemica dopo la sua comparsa in Europa nel 1348. Le epidemie erano favorite dal sovraffollamento e dalle terribili condizioni igieniche. “Negli ospedali i malati erano ammucchiati a due o più per letto” (pag. 122), e “la gente aspettava che uno andasse all’altro mondo per impossessarsi dei suoi vestiti” (pag. 40), cosa che ulteriormente contribuiva a diffondere le malattie. Poi c’erano le guerre, che con le loro distruzioni hanno sempre avuto un ruolo importante sia nelle carestie che nelle epidemie.
I mendicanti, che in tempi normali rappresentavano dal 6 all’8% della popolazione, quando i prezzi del pane si impennavano salivano rapidamente al 15/20%. Le cronache dell’epoca danno un’idea della situazione, come per esempio ancora nel 1629 a Bergamo: “Il tedio e cruccio insopportabile, l’orrore e spavento che porta seco una turba rabbiosa di gente mezzo morta che assedia ognuno per le strade, per le piazze, per le chiese, e alle porte delle case, cosicché non si può vivere con un puzzore che ammorba, con continui spettacoli di moribondi e morti, e soprattutto tanto rabbiosi che non si ponno distaccar di dosso senza fargli elemosina, e chi ne fa ad uno ne corrono cento; e chi non l’ha provato non lo crede.” (pag. 186). Ma anche in tempi più normali, come a Roma nel 1601, “non si vedono che mendicanti, e sono così numerosi che è impossibile circolare per istrada senza averceli d’attorno.” (pag. 27). Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento qualcuno inoltre osservava che “benché noi in Inghilterra si abbiano leggi eccellenti [per il controllo dei poveri], un gran numero di mendicanti inveterati e di vagabondi infestano la nazione e specialmente la città di Londra e le sue adiacenze. Se una qualsiasi persona è nata con un difetto od una infermità, oppure è stata sfigurata col fuoco o da altro accidente, o da qualche malattia infettiva che lo rende oggetto miserabile, questa persona finisce col gravitare su Londra dove è libera di mostrare la sua nauseabonda apparenza e terrorizzare la gente che finisce per forza a farle della carità per togliersela d’attorno.” (pag. 27).
Un’altra conseguenza della povertà era l’alto numero di bambini abbandonati. “Le statistiche sul numero dei trovatelli in cura negli ospizi danno percentuali sul totale della popolazione che vanno dall’1 al 2% (che corrisponde al 3/7% nel gruppo di età da 0 a 14 anni). Ma va anche considerato che queste cifre si riferiscono in larga misura al numero dei trovatelli sopravvissuti. Secondo una statistica veneziana del XVI secolo, l’80/95% dei trovatelli moriva entro il primo anno di vita.” (pag. 85). Del resto, mentre noi oggi consideriamo l’embrione un essere umano a tutti gli effetti, qualche secolo fa neonati e lattanti erano considerati esseri viventi in nuce, e la loro vita aveva ben poco valore. Bach e Lutero persero entrambi una decina di figli, certo con dolore, ma abituandosi in fretta all’idea. E il grande umanista del ‘500 Michel de Montaigne confessava di non ricordare nemmeno il numero dei figli che gli erano morti mentre erano a balia.
Un’ulteriore conseguenza della miseria era la diffusione della prostituzione. “Nella Roma del ‘600 le meretrici ufficialmente riconosciute erano poco meno dell’1% della popolazione totale” (pag. 105), cioè circa il 3/4% della popolazione femminile né troppo giovane né troppo vecchia per esercitare questo mestiere. Ma queste erano solo le meretrici registrate. Sicuramente il loro numero effettivo era più alto, e ad esso devono essere sommati tutti quelli che vivevano alle loro spalle: una parte non trascurabile dell’intera economia! Ma nelle altre città, e in particolare nei maggiori centri di scambi e di commerci, le cose non andavano diversamente.
E anche per quanto riguarda le condizioni di lavoro, il tasso di violenza e le condizioni igieniche, il quadro è sempre lo stesso. Per esempio, di solito per quanto riguarda il lavoro dei fanciulli, si descrive a tinte fosche il loro sfruttamento come qualcosa di tipico della rivoluzione industriale. Ma molte descrizioni provenienti dai secoli precedenti danno un quadro ancora più terribile. Una grida lombarda del 1590 a proposito della lavorazione del riso denunciò che “a tempo che si mondano i risi o si fanno intorno ad essi altre opere alcuni chiamati capi de risaroli procurano in più modi di unire quantità di figlioli e garzoni con quali usano barbare crudeltà perché, ridotti con promesse e lusinghe al luogo destinato, li trattano molto male e non pagando e non provedendo a quelle meschine creature del vitto necessario, e facendo fatticare come schiavi con battiture e con asprezza maggiore di quella che s’usa con i condannati al remo di modo che molti anco ben nati se ne muoiono miseramente nelle cassine e nei campi circonvicini.” (pag. 88). E ancora nella seconda metà del ‘700 un medico svizzero denunciò che “in molti villaggi il letame deve essere trasportato a spalla su per alte montagne e il suolo ha da essere coltivato in ginocchioni e per questa ragione molti ragazzi crescono deformi.” (pag. 88). Pochi anni prima un altro medico aveva denunciato che molti ragazzi oppressi dalle fatiche campestri si ammalavano e morivano. E con gli esempi si potrebbe continuare a lungo.
La vita delle donne valeva un po’ di più, ma anche le donne erano spesso costrette a lavorare in condizioni inumane. Ecco un esempio riportato dal medico Ramazzini, professore all’Università di Modena e poi di Padova a cavallo dell’anno 1700: “in autunno c’è la consuetudine di mettere a macerare negli stagni la canapa e il lino, compito che spetta soprattutto alle donne, le quali devono immergersi nell’acqua dei pantani e dei maceri fino alla cintola per tirarne fuori i fasci di canapa e lavarli. Non poche dopo questo lavoro sono prese dalla febbre e muoiono.” (pag. 88). Lo stesso professor Ramazzini ha elencato in un libro le conseguenze funeste di molte attività lavorative: “Minatori: qualunque sia la natura del materiale di scavo, finiscono sempre con l’accusare malattie gravissime, ribelli a tutti i rimedi … Doratori: nessuno ignora le terribili malattie che incolgono gli orafi che si occupano della doratura dell’argento e del rame. Poiché questa operazione si compie solo amalgamando oro e mercurio e volatilizzando poi il mercurio al fuoco, per quante cautele prendano questi operai, anche di voltar altrove il viso, non possono evitare di accogliere attraverso la bocca i vapori velenosi che rapidamente li danno preda alle vertigini, alla paralisi e conferiscono loro un aspetto cadaverico ecc. Vasai: per verniciare le stoviglie hanno bisogno di piombo bruciato e polverizzato … e dopo breve tempo ne risentono gravissime malattie ecc. Vetrai: più gravi sono i mali di quelli che fabbricano vetri colorati per i braccialetti e per gli ornamenti delle donne del popolo e altri usi.“ (pag. 157). Ecc. E la lista continua per un intero libro.
Anche le normali condizioni igieniche erano terribili. La gente usava strade e piazze come latrine e gettava ogni cosa fuori dalla finestra senza curarsi di chi passasse sotto. Questo perché le case, i palazzi e persino la reggia di Versailles non avevano né fogne né gabinetti. In pieno ‘600 la Palatina madre del Reggente di Francia scriveva: “Parigi è un posto orribile e puzzolente. Le strade sono così mefitiche che non vi si può restare a causa della puzza di carne e pesce che vanno a male e a causa di una folla di gente che orina per le strade.” (pag. 155). Ma anche la città di Londra non se la passava meglio: “In Londra la gente cammina e conversa perseguitata da questo fumo infernale. Si respira una nebbia spessa ed impura mischiata a vapore sozzo e fuliginoso che causa mille malanni rovinando i polmoni e la salute dell’intero corpo, per cui catarri, tisi, tossi e consunzione dominano in questa città più che in tutto il resto del mondo.” (pag. 156).
Per completare il quadro delle condizioni di vita, non si possono dimenticare una giustizia sommaria e feroce, i roghi delle streghe, l’Inquisizione, le persecuzioni delle minoranze ecc. Le condizioni di vita, terribili da ogni punto di vista, giustificano il livello elevato della mortalità, che in anni normali oscillava dal 3 al 5%. Questo dato è in linea con quello della natalità, che era solo di poco inferiore al massimo potenziale biologico. E natalità e mortalità, anche per effetto di epidemie e carestie, nei tempi medi o lunghi tendevano ad equilibrarsi. Di conseguenza anche la speranza di vita era molto bassa, e in media non superava i 30 anni.
Storia economica essenziale dell’Europa.
Queste erano le condizioni di vita nei secoli e nei millenni passati, in tutte le epoche storiche e civiltà, Europa compresa. Ma come ha potuto una società europea così miserabile progredire al punto da inventare la prima economia industriale e poi la moderna società del benessere?
Già è difficile capire come abbia fatto una umanità così malridotta a costruire cattedrali imponenti, stupende abbazie, palazzi sontuosi e grandi chiese ricche di opere d’arte. Ma risultati simili sono stati ottenuti da tutte le grandi civiltà, e sono in sostanza dovuti alle profonde disparità sociali che consentivano ad una piccola minoranza di accumulare le ricchezze necessarie. Basti pensare alle piramidi egiziane, ai monumenti dell’epoca greco romana o alla grande muraglia cinese. Ma poi perché è stata la società europea, che ancora nel 1400 era più arretrata, e non quella cinese, indiana o araba, a progredire al punto da inventare la prima economia industriale?
Dato che la grande maggioranza della popolazione viveva in condizioni di miseria estrema, la storia economica che qui viene delineata è di fatto quella di una ristretta “classe media” che viveva di artigianato e di commerci, e che riusciva a salvarsi dalla povertà assoluta. Un dato chiave è quello della percentuale della popolazione rurale, che è sempre stata molto alta fino all’epoca moderna a causa della bassa produttività agricola. Percentuale che è passata dal 90% nel profondo Medioevo al 70 / 80% del 1700 e che lasciava poco spazio agli altri settori dell’economia.
Quasi tutta la popolazione contadina viveva di pura fatica e con redditi da fame. Ma anche la maggior parte della popolazione urbana viveva in condizioni altrettanto difficili. A vivere nella più nera miseria era quindi la quasi totalità della popolazione.
Una delle caratteristiche tipiche dell’Europa preindustriale, come di tutte le società agricole tradizionali, è stato infatti un allucinante contrasto tra la miseria delle masse dei più poveri, e l’opulenza del limitato numero dei più ricchi. Una statistica rivelatrice può essere quella che riguarda le scorte di grano, difficili da nascondere, registrate in una città dell’Italia settentrionale nell’anno 1555: il 2% delle famiglie deteneva il 45% delle scorte, mentre il 60% non aveva scorta alcuna (pag. 24).
Altrettanto eloquenti sono i resoconti riguardanti i patrimoni e le rendite di nobili, mercanti, chiese e conventi. Se la ricchezza fosse stata distribuita in maniera egualitaria, per un po’ di tempo la maggior parte delle gente avrebbe potuto nutrirsi meglio (finché la crescita della popolazione non avesse costretto di nuovo tutti alla fame), ma nessuno sarebbe stato in grado di risparmiare. Le disparità sociali e la conseguente possibilità (per alcuni) di accumulare ricchezze è stata quindi una condizione necessaria, ma assolutamente non sufficiente. E’ quindi fondamentale ricostruire la storia europea per capire in che modo si è sviluppata l’economia a partire dal Medioevo, e la traccia è sempre la Storia Economica di C. Cipolla.
Il profondo Medioevo.
Nell’epoca romana il progresso tecnico era guardato con sospetto e gli artigiani erano quasi all’ultimo posto nella scala sociale. Inoltre i Greci e i Romani, tanto orgogliosi della propria civiltà da chiamare “barbari” tutti quelli che non ne facevano parte, erano scarsamente ricettivi nei confronti delle idee e dei suggerimenti provenienti dall’esterno. Quando invece le popolazioni germaniche si stanziarono nelle terre dell’impero d’Occidente, il loro atteggiamento mentale era di piena ricettività. Infatti più che inventare nuove tecniche, dimostrarono una grande capacità di assimilazione.
Il mulino ad acqua era già noto ai Romani, che però ne fecero un uso limitato. Esso si diffuse invece tra il VI ed il VII secolo, quando i signori feudali si accorsero che potevano costringere i contadini a macinare il grano nel loro mulino ed ottenere così una rendita. Anche le altre innovazioni non furono vere e proprie invenzioni. L’aratro pesante con le ruote, diffusosi a partire dal VII secolo, era probabilmente di derivazione slava. L’uso di ferrare i cavalli pare fosse noto ai Celti prima delle conquiste di Roma. Il basto per i cavalli fu invece un’invenzione cinese, e insieme alla rotazione triennale delle colture e all’attacco in tandem per gli animali da traino, si è diffuso in Europa tra l’VIII e il IX secolo.
Le invasioni barbariche che avevano causato la fine dell’impero romano erano proseguite fino all’avvento dei Carolingi (anno 747 d.C.). Poi ci fu una pausa che consentì all’Europa settentrionale un minimo ritorno alla normalità, una certa crescita economica e una rinascita degli scambi. Un periodo conosciuto come Rinascenza carolingia. Ma già dalla fine del regno di Carlo Magno si profilarono nuovi pericoli. Dal Nord le incursioni dei Vichinghi, che partendo dalla costa atlantica si spingevano profondamente verso l’interno, e che giunsero fino al Mediterraneo dove conquistarono la Sicilia. Da Est alla fine del IX secolo comparvero gli Ungari, gli ultimi veri barbari, che devastarono a più riprese l’Europa centrale e il Nord Italia. Nel Mediterraneo i dominatori erano da tempo gli Arabi, che assalivano gli abitanti delle regioni costiere. In queste condizioni i pochi superstiti erano costretti a rifugiarsi presso i castelli dei feudatari, rinunciando però così alla propria indipendenza. Finché verso la fine del millennio queste cause di insicurezza vennero meno. I Vichinghi nella seconda metà del X secolo diminuirono le loro incursioni fino a cessarle; gli Ungari, sconfitti nella battaglia di Lechfeld nel 955 d.C., non si fecero più vedere; infine per quanto riguarda gli Arabi, essi vennero contenuti dalla presenza dei Normanni nel Mediterraneo, dalla Reconquista spagnola della penisola iberica, e dalla distruzioni di due avamposti da cui partivano per le loro incursioni verso l’interno, nell’Italia meridionale e nel Sud della Francia. Si crearono così le condizioni per un lungo periodo di crescita, che è proseguito per tutti i primi tre secoli del nuovo millennio.
Tre secoli di crescita: il periodo Comunale.
La ripresa fu generale e interessò tutta l’Europa, dapprima lenta, poi via via più sostenuta, ed ebbe il suo fulcro nelle città. Con le invasioni barbariche le città si erano spopolate o erano scomparse. Ma a partire dalla fine del primo millennio ebbe inizio un imponente processo di urbanizzazione che vide la fondazione di molte nuove città specialmente nell’Europa centro settentrionale. Alla base della rinascita delle città ci fu un massiccio movimento migratorio. La gente migrava dalla campagna alla città per sottrarsi al potere feudale e per sfruttare le nuove opportunità che le città offrivano. Non era solo il fatto giuridico del servo fuggito dalle campagne che si ritrovava libero nella città. C’era tutta un’atmosfera di nuove opportunità. La città medioevale si caratterizza per essere un mondo libero e fieramente autonomo, in netta contrapposizione al mondo feudale circostante. Artigiani e mercanti vi si organizzavano in corporazioni e al di sopra di tutto c’era l’università dei cittadini, il libero Comune. Ogni settore della vita sociale fu trasformato. Produzione e commercio, uso della moneta, attività intellettuale aumentarono progressivamente. Una rivoluzione sociale ed economica che creò i presupposti della rivoluzione industriale del XIX secolo.
La crescita urbana ebbe come motore l’espansione dell’economia agricola e della popolazione rurale. Dopo il crollo dell’impero romano la popolazione si era ridotta a livelli tragicamente bassi, sia nelle città che nelle campagne. Moltissimi terreni abbandonati erano stati riconquistati dal bosco o si erano impaludati. Ciò però fece sì che per più di 300 anni l’eccesso di popolazione che via via si formava potesse trovare sempre nuovi terreni liberi da mettere a coltura. Nello stesso tempo, sia pure lentamente, anche le tecniche agricole progredivano. A partire dal XII secolo si diffuse l’uso del ferro nella fabbricazione degli attrezzi agricoli, venne migliorato l’aratro, il cavallo sostituì il bue come animale da traino e si affermò la rotazione triennale delle colture. La produttività rimaneva però molto bassa, perché era partita da livelli di grande arretratezza.
Anche durante questo periodo l’Europa ha dimostrato una straordinaria capacità di assimilare le novità provenienti dall’esterno, e poi di adattarle e perfezionarle con un processo di miglioramento continuo. Il mulino ad acqua ebbe un’ulteriore diffusione, ma per essere adattato alle nuove attività produttive. La ruota per filare apparve in Cina nel secolo XI, e un secolo dopo fece la sua comparsa in Europa. La bussola gli Europei la conobbero dagli Arabi, mentre la polvere da sparo fu un’invenzione cinese. Gli europei però impararono ad usarla per armi da fuoco sempre più potenti e perfezionate. Anche la carta fu inventata in Cina e si diffuse nel mondo islamico nel secolo VIII. In Europa comparve nel corso del XIII secolo, ma è tipico il fatto che la produzione della pasta da carta fu attuata in Occidente con macchinari mossi da mulini ad acqua. Questo straordinario periodo di sviluppo portò ben presto anche a nuove scoperte: gli occhiali, l’orologio meccanico, l’artiglieria e tante altre invenzioni minori. Ci fu un miglioramento anche nelle tecniche di navigazione. L’adozione del timone di poppa nella linea centrale della nave, lo sviluppo della bussola, la redazione di carte nautiche e di portolani, nuovi tipi di vele ecc. Vennero anche sviluppate le tecniche bancarie e contabili, vennero introdotti i numeri arabi insieme a nuovi strumenti matematici e alla fine anche lo zero (sconosciuto ai Greci e ai Romani e inventato in India).
L’istruzione, fino ad allora appannaggio di conventi e abbazie rurali, si trasferì nei centri urbani dove si moltiplicarono le università, ma fiorirono anche le scuole d’abbaco riservate ai figli degli artigiani.
In quest’epoca hanno conosciuto un notevole sviluppo anche le arti maggiori: pittura, scultura, architettura, letteratura, come dimostrano le grandi cattedrali che possono essere considerate il biglietto da visita dell’epoca comunale. Ma non si possono dimenticare gli altri grandi monumenti come i cicli pittorici di Giotto, la Divina Commedia di Dante o i componimenti poetici del Petrarca. E anche i numerosi trattati di filosofia maturati nell’ambiente delle scuole cattedrali e delle università, che hanno posto le fondamenta del pensiero moderno.
La crisi del Trecento.
Ma alla fine questo straordinario periodo di crescita ebbe termine. Così come la disponibilità di terreni incolti aveva consentito lo sviluppo dell’economia, il loro esaurirsi diede inizio alla crisi. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento finirono i terreni di buona qualità, e da allora vennero messi a coltura appezzamenti sempre meno produttivi. Poiché nel contempo la popolazione continuava ad aumentare, la conseguenza fu una serie di gravi carestie nella prima metà del Trecento, a cui si aggiunsero delle ricorrenti crisi economiche che colpirono in particolare la città di Firenze. Questo periodo di crescenti difficoltà alla fine sfociò nella prima grande epidemia di peste dopo l‘epoca romana. Una buona parte della popolazione era concentrata nelle città, dove viveva in condizioni di grande affollamento e condizioni igieniche precarie. Ciò favorì la diffusione della peste, che imperversò in tutta l’Europa dal 1348 al 1351, portando la popolazione da un’ottantina di milioni di persone a circa cinquanta. Ma questa fu solo la prima di una lunga serie. La peste divenne endemica, e insieme alle guerre e alle carestie da allora in poi svolse la funzione di impedire la crescita della popolazione oltre i limiti di sostenibilità dell’agricoltura. Così la popolazione europea è rimasta più o meno stabile per un lungo lasso di tempo, tanto che verso il 1700 essa era superiore solo del 30% ai livelli raggiunti quattro secoli prima.
Questa crisi però non arrestò lo sviluppo delle idee, delle tecnologie e delle relative competenze, così come non cessarono le attività produttive e i commerci. Del resto una delle ragioni fu che le epidemie, pur costituendo delle immani tragedie, avevano l’effetto di allentare la pressione demografica e di elevare il livello di vita dei superstiti. Inoltre alcune regioni erano sfuggite alla crisi, e da allora hanno svolto un ruolo di traino sul resto dell’Europa.
Fino a quel momento le aree trainanti erano state l’Italia centro settentrionale, che beneficiava del contatto con le civiltà allora più progredite come quelle araba e bizantina, e le Fiandre. Nella prima metà del ‘300, oltre alla Toscana, andarono in crisi la Francia e l’Inghilterra, sconvolte dalla guerra dei cent’anni (1337 – 1453). Ma altre regioni conobbero un innegabile sviluppo. La Hansa teutonica toccò l’apice della sua potenza proprio nel XIV secolo. Ciò in seguito all’espansione nei territori slavi, costituiti per lo più da terre di ottima qualità e mal coltivate (in sostanza nell’Europa Nord orientale la disponibilità di nuove terre da mettere a coltura è durata più a lungo che altrove). Vi furono introdotti l’aratro pesante ed anche le tecniche di estrazione mineraria e metallurgiche, ignote alle primitive popolazioni locali, con la conseguente creazione di un surplus agricolo che alimentò da allora un imponente flusso di traffici commerciali attraverso il Mar Baltico. Traffici di cui beneficiarono in particolare i Paesi Bassi, che erano già la regione più progredita dopo l’Italia, e le città della Lega anseatica.
Il Quattrocento e le scoperte geografiche.
All’inizio del ‘400 il Portogallo entrò in una fase di espansione che si concluse con la creazione di uno straordinario impero commerciale di dimensioni mondiali. La Spagna proseguiva la Reconquista, che sarebbe terminata alla fine del secolo con l’annessione dell’enclave di Granada. Nello stesso periodo anche la Germania meridionale iniziava una fase di grande sviluppo in seguito alla scoperta di ricchi giacimenti di argento e di rame. E anche per quanto riguarda l’Italia, il XV secolo fu nel complesso positivo. Positivo per la Lombardia, grazie ai suoi stretti rapporti con l’area tedesca, mentre Firenze, superata la crisi, ridiventò la potenza produttiva, commerciale e finanziaria di un tempo.
Nel XIV e XV secolo vennero migliorate diverse tecniche produttive, si diffusero i mulini a vento e vennero inventate le chiuse per i canali. Ma un’altra grande scoperta è stata quella della stampa a caratteri mobili. Anche le arti maggiori hanno conosciuto una costante evoluzione fino agli esiti insuperati del Rinascimento. Ma i progressi più importanti furono quelli nelle costruzioni navali, nelle tecniche di navigazione e nel campo delle artiglierie, che diedero ai paesi affacciati sull’Atlantico un vantaggio decisivo sul resto del mondo. Sono stati questi progressi a rendere possibili le grandi scoperte geografiche e l’espansione economica, militare e politica che ne è seguita.
In poco più di un secolo Portoghesi e Spagnoli prima, Olandesi e Inglesi poi, gettarono le basi della supremazia europea su scala mondiale. In soli 10 anni dal loro arrivo in acque indiane, i Portoghesi distrussero la navigazione araba. Nei decenni successivi i galeoni armati europei, specialmente inglesi e olandesi, sostituirono la navigazione locale in tutti i mari dell’estremo Oriente. Nello stesso tempo anche la Russia iniziava la sua irresistibile espansione verso Oriente grazie ad armi da fuoco più mobili e a tiro rapido, contro le quali i nomadi delle steppe non potevano nulla.
La scoperta dell’America.
In seguito alla scoperta dell’America, e grazie all’afflusso dei tesori americani, la Spagna conobbe un periodo di grande splendore. Per oltre un secolo, dall’inizio del ‘500 ai primi decenni del ‘600, le flotte spagnole trasportarono in Europa una massa imponente di metalli preziosi, in grande prevalenza argento, che ebbero un ruolo fondamentale nell’ulteriore sviluppo dell’economia europea. Circa un quarto costituiva il reddito della Corona, e venne speso quasi tutto per servizi militari, armi e vettovaglie. La parte restante servì per l’acquisto di beni di consumo prodotti nel resto dell’Europa, dato che la Spagna non aveva quasi per nulla centri di produzione propri.
Il lavoro manuale era all’ultimo posto nella scala sociale, e la persecuzione degli Ebrei, costretti a lasciare il paese alla fine del ‘400, aveva ridotto ancora di più la capacità produttiva interna. Così la Spagna era costretta ad importare grandi quantità di beni dalla Francia, dall’Olanda, dall’Inghilterra e dall’Italia, sollecitandone lo sviluppo. La situazione si aggravò quando i corsari olandesi, francesi e inglesi riuscirono a dirottare nel loro paese una quantità crescente dei metalli preziosi provenienti dalle Americhe. Quando alla fine del ‘600 il flusso cessò, la Spagna si ritrovò, non solo arretrata, ma anche povera.
Con la scoperta dell’America tutta l’Europa ottenne dei vantaggi. Imparò a coltivare il mais e la patata, che ridussero la possibilità di carestie. Altri vantaggi vennero dalla grande disponibilità di moneta, la cui scarsità nei secoli precedenti aveva gravemente ostacolato gli scambi. Nelle Americhe venne impiantata la coltivazione di caffè, cioccolato, tabacco, zucchero di canna e cotone, tutte materie prime che alimentarono in Europa nuove attività manifatturiere, di cui quella tessile sviluppata in Inghilterra con i telai meccanici fu la più importante.
Italia, Olanda e Inghilterra.
Per quanto riguarda l’Italia centro-settentrionale, sul piano tecnico e artistico essa era di nuovo, alla fine del ‘400, la regione più avanzata d’Europa. Lo dimostrano i geni del Rinascimento con le loro inarrivabili opere nel campo della cultura e dell’arte. L’Italia però non era più quella dei liberi comuni, perché quasi dovunque si erano insediate le Signorie. Le istituzioni comunali non erano state cancellate, e la combinazione tra il massimo splendore raggiunto dalle botteghe artigiane, e i capitali di cui disponevano queste potenti famiglie, ha prodotto le opere d’arte del ‘400 e del ‘500. Sono stati questi grossi investimenti in monumenti e opere d’arte che hanno riempito l’Italia di capolavori. Artisti come Leonardo da Vinci, usciti dalle scuole d’abbaco e dalle botteghe e non dalle università, lavoravano per questa ricca committenza. Si può solo immaginare quale impulso Leonardo avrebbe potuto dare all’economia se avesse usato il suo genio per aumentare la produttività nei principali settori artigianali. Ma i congegni da lui progettati erano per lo più destinati alle complesse macchine sceniche di mirabolanti spettacoli teatrali, oppure a scopi militari. In altri paesi geni di minor levatura, per lo più sconosciuti, lavoravano invece a perfezionare e rendere più sicura, veloce e meno costosa la navigazione commerciale e ad innovare prodotti e tecniche di produzione allo scopo di abbassare i costi. Così l’Italia rimaneva indietro nei settori più strategici, e l’indebolimento progressivo delle istituzioni comunali avrebbe fatto in seguito diminuire anche la qualità della sua produzione artistica. L’Italia fu anche gravemente danneggiata dalle guerre che la sconvolsero dal 1494 al 1538. In seguito essa si riprese grazie alla robusta domanda proveniente dalla Spagna. Ma intanto altri paesi del Nord Europa avevano rinnovato le loro produzioni e stavano mettendo in piedi una rete mondiale di commerci nella quale l’Italia non riuscì mai ad inserirsi. Finché durò la ricchezza della Spagna, cioè fino ai primi decenni del ‘600, la produzione rimase su buoni livelli. Ma quando la prosperità della Spagna venne meno, e in più cessò anche la domanda proveniente dalla Germania sconvolta dalla guerra dei trent’anni, le esportazioni crollarono. Da allora l’Italia è rimasta un produttore marginale.
Per quanto riguarda l’Italia meridionale, essa non ha mai avuto un apparato produttivo significativo. Nel Sud i liberi comuni non hanno mai attecchito, perché soffocati sul nascere da un sovrano potente come Federico II di Svevia, fiero nemico delle autonomie comunali. Il Sud è stato penalizzato anche dalla presenza dei pirati arabi e saraceni, che rendevano insicure le coste e l’entroterra. Nel Medioevo il Sud, come il resto dell’Italia, aveva beneficiato dei rapporti più stretti con le civiltà allora più evolute, araba e bizantina (a parte le incursioni dei pirati), e della non completa scomparsa delle città. Ma nel Sud non ci sono mai state le libere corporazioni di arti e mestieri, anche se si è comunque sviluppato un artigianato di buon livello al servizio della committenza nobile. Nel corso del ‘600, in seguito alla forte diminuzione dei suoi volumi produttivi, anche nel Nord la maggior parte degli artigiani ormai lavoravano solo per soddisfare la committenza locale. Nel giro di poco più di un secolo, da paese guida l’Italia si era trasformata in un paese arretrato. Il suo posto era stato preso dall’Olanda e dall’Inghilterra.
I Paesi Bassi erano già la seconda area più sviluppata d’Europa. La loro prosperità, insieme a quella della Francia settentrionale, aveva le sue lontane origini nella Rinascenza carolingia. Poi, nei primi secoli dopo il Mille, i Paesi Bassi avevano aggiunto la lavorazione delle pregiate lane inglesi e gli intensi scambi commerciali attraverso il Mar Baltico. Nella prima metà del ‘500 questa regione divenne ancora più prospera grazie all’intensificazione della produzione e degli scambi trainati dalla ricchezza della Spagna. In quegli anni l’Olanda conquistò un vantaggio strategico che le consentì di espandere i suoi commerci fino all’Estremo Oriente.
Nel 1570 iniziò una lunga guerra con la superpotenza spagnola che si concluse solo nel 1609, ma che le consentì di ottenere l’indipendenza. I Paesi Bassi meridionali, fino ad allora i più sviluppati, subirono i maggiori danni. Ma quelli settentrionali alla fine risultarono rafforzati, sia per l’ottenuta indipendenza, sia per il contributo dei commercianti e degli artigiani immigrati dal Sud del paese. Sta di fatto che alla fine della guerra l’Olanda è di gran lunga il paese più sviluppato d’Europa, sia per le sue attività produttive, sia per la sua rete di commerci mondiale, sia per la sua agricoltura più specializzata e due o tre volte più produttiva del resto dell’Europa. Infine l’Olanda del ‘600 surclassava tutti anche nelle costruzioni navali. Le sue navi infatti erano più veloci e più manovrabili e venivano prodotte a costi inferiori, e in effetti costituirono il fattore decisivo per la sua rete di trasporti globale. Il successo dell’Olanda ebbe un effetto di traino su tutta l’Europa e in particolare nei confronti dell’economia inglese.
Ancora alla fine del ‘400 l’Inghilterra era un paese periferico e arretrato. Da lì venivano le lane migliori d’Europa, che però erano quasi tutte esportate allo stato grezzo e manifatturate nei Paesi Bassi. Ben presto però l’Inghilterra ampliò progressivamente la propria produzione, in modo da appropriarsi di una quota crescente del valore aggiunto. Si avvantaggiò anche della battuta d’arresto dell’Italia nella prima metà del ‘500 e della grande domanda di prodotti proveniente dalla Spagna. Riuscì anche a sviluppare una propria marineria, che distrusse nel 1588 in un’epica battaglia l’Invincible Armada, e da allora si dette alla guerra di corsa con la quale riuscì ad intercettare una quota crescente della ricchezza delle Americhe.
Fu avvantaggiata anche dall’immigrazione di commercianti e artigiani fuggiti dai Paesi Bassi durante la guerra con la Spagna, e poi durante tutto il ‘600 dalla prossimità con l’area più sviluppata d’Europa. E alla fine del ‘600 fu l’Inghilterra a portarsi al comando, fino a diventare il primo paese industriale moderno. L’Inghilterra aveva dalla sua anche un sistema istituzionale altrettanto sviluppato, che premiava e proteggeva le attività economiche, una mentalità aperta e in più, fattori che alla fine risultarono decisivi, una maggiore dimensione e la presenza sul suo territorio di giacimenti di carbone.
Per l’armamento del naviglio commerciale erano necessari i cannoni. Originariamente erano di bronzo ed erano estremamente costosi. Gli Inglesi impararono a farli di ferro. Svilupparono quindi un’importante industria metallurgica, che però in poco tempo esaurì le loro disponibilità di legname. A quel punto cominciarono ad importare legname e a far produrre i loro cannoni in Svezia. Nel giro di pochi anni, però, verso la metà del ‘600, impararono ad usare nei processi metallurgici il carbon fossile al posto del carbone di legna. Innovazione che si rivelò strategica, perché fu questa fonte di energia, molto più abbondante e a buon mercato, che alimentò nella seconda metà del ‘700 la prima economia industriale. Il fattore decisivo fu l’aumento delle dimensioni di impresa e la contemporanea concentrazione di manodopera e di capitali in unità di produzione che costituirono i prototipi delle fabbriche moderne.
La formula magica del benessere.
Naturalmente anche altri paesi hanno in qualche misura contribuito allo sviluppo economico dell’Europa, come la Francia, la Germania o la Svizzera, ma questa breve ricostruzione ha il solo scopo di individuare le linee principali di quel processo ininterrotto che, a partire dalla grande espansione dei primi tre secoli, è sfociato nella prima economia industriale.
Ma quali sono gli ingredienti di questa formula che ha portato l’Europa fino alla soglia della società moderna?
Il primo elemento, quello più fondamentale, è la libertà, che è sempre associata a qualche forma di democrazia. La libertà è importante, perché è la condizione per dare a tutti la possibilità di migliorare il proprio livello di vita e quello della propria famiglia, anziché essere costretti a fare gli interessi di qualcun altro. La libertà è il motore più potente dell’economia, e anche la forza che può superare tutti gli ostacoli. Un motore molto più potente di quello che era (e che per qualcuno purtroppo è ancora) l’unico modo di arricchirsi: accumulare potere.
Non è il potere che arricchisce gli stati, non è il potere che crea la ricchezza. Questa è stata la grande illusione che ha portato ai disastri delle due guerre mondiali, come si vedrà più avanti. Nelle guerre di conquista la distruzione di ricchezza è sempre molto maggiore del bottino, e quindi il risultato è sempre un impoverimento generale, a cui sfugge solo una piccola minoranza di potenti. E questo vale anche per lo sfruttamento dei popoli conquistati o sottomessi: chi non può godere del frutto del proprio lavoro perché gli viene interamente sottratto, non sarà disposto ad impegnarsi per renderlo più produttivo.
Queste sono le cause della miseria endemica di tutte le altre epoche storiche. Le uniche eccezioni sono proprio quelle civiltà che sono riuscite a sviluppare, anche in maniera parziale e per un tempo limitato, qualche forma di democrazia. Così è stato, per esempio per l’antica Grecia, che pur essendo una nazione piccola e divisa, in un paio di secoli ha raggiunto risultati tali in campo economico, artistico e scientifico, da illuminare tutta la civiltà antica.
Anche nella storia europea degli ultimi mille anni c’è una tradizione ininterrotta di libertà e di democrazia che non è mai stata del tutto soffocata. Dalle città-repubblica del periodo comunale, all’Olanda tornata libera dopo la guerra con la Spagna, che ha inaugurato un periodo di straordinario sviluppo che ancora una volta ha dimostrato la superiorità delle economie libere. Poi l’Inghilterra, che ha saputo imitare e superare il modello olandese, fino a trasformarsi nel primo stato industriale moderno. L’Inghilterra era un paese relativamente aperto, che lasciava spazio all’iniziativa individuale e alla mobilità sociale, e che seppe darsi delle istituzioni a garanzia della libertà politica e del diritto di proprietà. Infine da una costola dell’Inghilterra sono nati gli Stati Uniti, che hanno inventato la democrazia rappresentativa adatta ad uno stato di grandi dimensioni.
Il secondo elemento della formula magica del benessere è l’economia di mercato, che a sua volta per svilupparsi non può fare a meno della libertà. Infatti le decisioni di comprare e vendere e intraprendere delle attività economiche non possono che essere libere.
Fin dal Medioevo, nell’ambiente favorevole dei liberi Comuni, sono stati creati gli strumenti, che poi si sono evoluti con il tempo, necessari per il funzionamento del mercato e per lo sviluppo delle attività produttive e degli scambi. Dalla organizzazione delle fiere, all’invenzione della lettera di cambio, alla diffusione dei manuali di mercatura, allo sviluppo di nuovi tipi di contabilità, dei contratti di commenda e degli altri tipi di partecipazione del capitale all’attività dell’impresa. Un ruolo importante lo hanno avuto i banchieri. All’inizio erano solo dei cambiavalute, ma ben presto hanno cominciato a raccogliere risparmio e hanno avuto un ruolo sempre più importante nell’indirizzarlo verso le attività produttive e commerciali.
Il terzo elemento è la rivoluzione scientifica dell’inizio del ‘600, che a sua volta è stata all’origine della rivoluzione tecnologica e industriale dei secoli successivi. Attore principale di questa rivoluzione è stato Galileo Galilei, che ha unificato la tradizione proveniente dalle scuole d’abbaco degli artigiani con quella delle università, dove la discussione dei fenomeni naturali veniva condotta solo in termini qualitativi e non quantitativi. Ed è stata proprio la combinazione della scienza accademica con l’abitudine alla misurazione quantitativa dei fenomeni appresa nell’Arsenale di Venezia, che ha portato G. Galilei a comprendere alcuni fondamentali fenomeni fisici su cui si erano inutilmente scervellati i “filosofi naturali” dell’antichità.
Il suo lavoro è stato poi proseguito da Newton e da numerosi altri scienziati, che a partire dalla metà del ‘700 hanno lavorato sistematicamente anche allo sviluppo di tecnologie utili all’economia. Per esempio hanno inventato e perfezionato la macchina a vapore e i telai meccanici, che insieme ad una fonte di energia come il carbone, hanno reso possibile il passaggio dalla produzione artigianale a quella industriale.
Hanno contribuito a questa crescita alcune condizioni favorevoli: la disponibilità per un lungo arco di tempo di nuova terra da coltivare, l’afflusso dalle Americhe di ingenti quantità di metalli preziosi, la possibilità di estendere gli scambi a tutto il resto del mondo. Ma queste condizioni non sarebbero state sufficienti, e comunque non sono state determinanti. Molto prima degli Europei i Cinesi avrebbero potuto scoprire e colonizzare l’America e tutto il resto del mondo, ma i sovrani del Celeste impero detestavano le novità e non erano molto interessati a migliorare il livello di vita dei loro sudditi. La Spagna del ‘500 ha avuto in regalo dalla scoperta dell’America una quantità sbalorditiva di ricchezza. Ma dato che le “vili arti meccaniche” erano all’ultimo posto nella scala sociale, tutto quell’argento non è riuscito ad innescare la crescita dell’economia. Per di più gran parte di quelle risorse sono state sprecate in guerre senza senso, come quella contro l’Olanda.
La disponibilità di nuovi terreni da mettere a coltura nei primi secoli del millennio è stato un potente fattore di crescita; ma anche quando le nuove terre si erano esaurite, in alcune parti dell’Europa la crescita è continuata, come per esempio in Italia tra il 1350 e il 1500. Alla fine decisivo è stato il fattore umano, cioè l’aumento e la diffusione di conoscenze, tecniche, esperienze e competenze nei vari settori dell’economia. Ma anche l’affermarsi di valori che possono fiorire solo in un clima di libertà, come lo spirito di iniziativa e di collaborazione, il senso dell’onestà, lo spirito di sacrificio, la perseveranza, la curiosità intellettuale e sperimentale e così via.
Anche i fili del progresso scientifico e di un mercato che pur tra alti e bassi funziona sempre meglio, si dipanano nello stesso modo, con il testimone che nel corso dei secoli passa da un paese all’altro. E sono sempre i paesi che tengono più alta la bandiera della libertà. Questo perché istituzioni libere, conoscenza scientifica ed economia di mercato operano in sinergia e si rafforzano a vicenda, e quello che alla fine emerge è una comunità di persone con competenze sempre più sviluppate. Una comunità che però, fino a tempi recenti, costituiva solo una piccola minoranza della popolazione europea.
La crescita economica moderna.
Perché i benefici dell’industrializzazione potessero estendersi a tutta la popolazione della Gran Bretagna e di tanti altri paesi, ci sono voluti due secoli. La prima ondata della rivoluzione industriale ha preso le mosse dalla macchina a vapore e dalle tecnologie collegate, specialmente i telai meccanici e le nuove tecniche di produzione dell’acciaio. Una seconda ondata di progresso tecnologico ebbe inizio verso la metà dell’800 con l’avvento delle ferrovie, del telegrafo e delle navi a vapore. La terza ondata prese impulso dall’elettrificazione dell’industria e della società urbana verso la fine dell’800. A questa si aggiunsero l’invenzione del motore a scoppio e, all’inizio del ‘900, i progressi dell’industria chimica nella trasformazione dell’azoto atmosferico in ammonio destinato alla produzione di fertilizzanti.
Queste ondate si sono propagate nel mondo con la diffusione dei commerci e degli investimenti, e furono favorite da una consapevole politica attuata dall’Inghilterra. Prima con il trattato di Gand, che nel 1814 creò le condizioni per la fine della seconda guerra d’indipendenza americana e per un lungo periodo di pace che dura tutt’ora tra gli Stati Uniti e il Canada, e tra le due ex colonie e la madrepatria inglese. Poi al Congresso di Vienna del 1815, dopo la definitiva sconfitta di Napoleone, dove l’Inghilterra creò le condizioni per una pace duratura allo scopo di favorire la ripresa dei commerci.
Iniziò così un lungo periodo di crescita economica, che nella seconda metà dell’800 si è diffusa al resto dell’Europa, al Nord America, all’Australia e alla Nuova Zelanda, e anche a diversi paesi del Centro e Sud America e al Giappone. Questa è stata anche l’epoca della superiorità tecnologica, economica, militare e politica dell’Europa sul resto del mondo, che si è concretizzata con la creazione di vasti domini coloniali in Asia, in Africa e nelle Americhe. Ma questa superiorità alimentò la convinzione che essa fosse il riflesso di una superiorità più profonda, genetica e razziale, che servì poi a giustificare forme di sfruttamento spesso brutali.
I benefici economici degli imperi coloniali furono però scarsi rispetto a quelli dovuti alle nuove tecnologie, alle nuove fonti di energia e all’espansione di industria e commerci, ma alimentarono ugualmente la vecchia illusione che il potere porta ricchezza. E sono state proprio idee come queste (i massimi vantaggi si ottengono con il dominio e la conquista) che hanno precipitato i paesi europei nella catastrofe della prima guerra mondiale (1914). Le conseguenze sono state devastanti. Innanzitutto la guerra ha interrotto un secolo di crescita ininterrotta (altro che vantaggi economici!) e ha provocato direttamente milioni di morti. Poi ha destabilizzato l’impero zarista, con il conseguente scoppio della rivoluzione bolscevica, che ha spinto la Russia su una strada di spietata brutalità e distruzione economica dalla quale è uscita, con le ossa a pezzi, solo 75 anni dopo. Altra conseguenza della Prima guerra mondiale fu un lungo periodo di instabilità finanziaria, che scatenò la grande depressione degli anni Trenta. A sua volta la grande depressione innescò una rovinosa diffusione del protezionismo commerciale, che fu la causa dell’ascesa del nazismo in Germania e dei militari in Giappone. Indirettamente, quindi, la Grande Guerra fu anche la causa della Seconda guerra mondiale.
Solo dopo la Seconda guerra mondiale ci si è resi conto che la politica di potenza non conduce da nessuna parte e provoca solo disastri, e che le guerre devono essere evitate ad ogni costo perché sono incompatibili con l’economia e gli interessi degli stati. Così come ci si è resi conto che lo sfruttamento coloniale porta pochissimi frutti ai colonizzatori, e danni immensi ai popoli sfruttati, paragonabili a quelli di una guerra.
E’ iniziato così un periodo di pacifica crescita economica accompagnata da un ulteriore sviluppo delle tecnologie, che nel giro di 20 / 30 anni ha portato i paesi “occidentali” ad un’economia matura al punto da esaurire i mercati dei principali beni materiali, cosa che ha avuto come contropartita la soddisfazione dei bisogni primari dell’intera popolazione.
Infine, nella seconda metà del dopoguerra, questo modello vincente di economia e di società si sta rapidamente diffondendo in quasi tutto il resto del mondo, grazie anche al crollo dell’Unione Sovietica e alla fine del maoismo in Cina.