Antropologia
ONDE VEGNA, CHE DI PADRI DI MOLTO SENNO NASCANO FIGLIUOLI BALORDI; E DI PADRI BALORDI FIGLIUOLI DI MOLTO SENNO
Potrebbono dire alcuni, che l’esser savio, o pazzo sia qualità dell’anima, come fra Gentili non vi mancò, ch’il credesse, e ch’essendo l’anime create da Iddio, e non generate da gli huomini, non habbia da parer maraviglia, se quelle de’ figliuoli non rassomigliano talora quella del Padre. Ma l’essere un’huomo savio, o pazzo, non pure secondo i Teologi, ma anche secondo i migliori Filosofi, non viene dall’anima, che sia guasta; ma dall’indispositione più tosto de gli stormenti, de’ quali ella si serve nell’operare. Laonde il padre, che è pazzo, o balordo, per haver guasti gli stormenti dell’intelletto, generando un’altro simile a lui, con l’istessa imperfezione generar lo dovrebbe, come per lo contrario quando per haver gli organi ben disposti egli è savio, e prudente, havrebbe da generare i figliuoli colle medesime qualità.
Alcuni hanno inventato un pensier poetico, che piace a molti, dicendo; che gli huomini di poco ingegno nell’atto del congiungimento s’applicano con tutto l’animo a quella azione; onde per questo sogliono generare i figliuoli sanj: ma i padri di grande ingegno sempre vanno coll’immaginativa nelle speculazioni distratta; e però in quell’atto servando l’istesso tenore sogliono per lo più generare i figliuoli balordi, quali si legge, che furono quelli d’Africano maggiore, d’Antonio, e di Cicerone, Postumo d’Agrippa, Claudio di Druso, Gaio di Germanico, Commodo di Marco Antonio, Lamprocle di Socrate, Arideo di Filippo, ed altri di questa schiera; onde nacque poscia il proverbio Heroum filii noxae, esagerato da Sparziano nella vita di Settimio Severo, là dove disse, Neminem prope magnorum virorum optimum, et utilem filium reliquisse satis claret, etc. Ippocrate, Pitagora e Democrito vollero, che la donna havesse anch’ella seme, il quale alla generazione potesse concorrere. E Stratonico Fisico (come riferisce Galeno) tenne, che’l seme predominante, o della donna, o dell’huovo, fosse quello, che’l parto formasse, e che l’altro servisse nel ventre per alimento al bambino. E di questa dottrina d’Ippocrate, e di Stratonico se ne dà l’esempio nell’huomo, il quale essendo composto di due semi diversi, l’uno d’essi forma il pulcino, e l’altro gli serve per alimento. E meglio si proverebbe eziandio, se vero fosse quello, che si dice, che Scimie, e Cani alle volte habbiano ingravidate donne: e che parti di figura umana se ne siano veduti, come narrano tra gli altri il Volaterano, e il Maggio; perciochè questo darebbe a divedere, che’l seme della donna havesse prevaluto, e che quello dell’animale fosse concorso per alimento. Però al quisito nostro hanno risposto alcuni fondati su tale opinione, dicendo: che quando di padre di grande ingegno nasce un balordo e dappoco, ciò viene, perchè il seme della madre prevale, non essendo quello dell’huomo ingegnoso fecondo per generare: e l’huomo generato di seme di donna non può esser prudente per cagione del molto freddo, e umido di quel sesso. Ma questo è un rispondere solamente alla metà del quisito, e lasciar l’altra più inviluppata, che prima; conciosia, che se i figliuoli de gli huomini molto savj riescono balordi per esser generati del seme della madre, balordi similmente saranno sempre i figliuoli de’ balordi, poichè o prevaglia il seme della madre, o quello del padre, l’uno, e l’altro è cattivo per dare ingegno, e prudenza. Oltr’a questo habbiamo in contrario Aristotile, e tutta la scuola Peripatetica, che niega, che mai la donna con seme alcuno alla generazione concorra, volendo, che quello, che in lei ne par seme, non sia altro, che sudore della matrice. Nondimeno benchè questa opinione d’Aristotile per l’autorità di tant’huomo sia accettata comunemente, a me però sempre ha piaciuto più quella d’Ippocrate (che fu di Democrito similmente) quanto a quella parte, che la donna habbia seme, il quale alle volte anch’egli alla generazione possa concorrere, vedendo noi, che non pure le femmine, ma i maschi ancora molto spesso s’assomigliano di faccia, e di costumi più alla madre, che al padre; che se la donna attivamente non concorresse mai, donde procederebbono così fatte rassomiglianze? Certo se il seme del padre sempre è agente, sempre ei procurerà di ridurre i sangui mestrui, ne’ quali opera, simili al suo principio, cioè simili al padre, e non alla madre; e tanto più inclinandovi la natura, la quale sempre si studia di produrre le cose più perfette, che può. E se mi fosse risposto, che ciò venisse dalla materia del sangue mestruo, che sempre qualche cosa della madre ritenga: perchè non harebbe egli da succeder sempre lo stesso? E se nella donna si mostrano evidenti i vasi spermatici, atti ad havere seme, e gittarlo; come anco testifica Galeno 2. de Sem. cap. 1. e le donne molto spesso in quell’atto mostrano segni, che l’habbiano, e che lo gittino; e sappiamo, che anche alle volte alcune fanciulle si sono mutate in maschi (come scrive Flegonte Tralliano nel suo libro De mirabilibus, et longevi; e oggidì pure in Roma vive un giovane figliuolo d’uno speziale in Torresanguigna conosciuto da tutti, che pochi anni sono era femmina, e tuttavia ritiene il nome d’Anna, che havea prima) a che effetto harebbe la natura formati quegli strumenti, e quel seme, se qualche volta almeno non si servisse di loro? Io, quanto a me, in questa parte (come ho detto) terrei sempre più tosto con Ippocrate; poco verisimile parendomi, che l’efficiente del padre introduca nella materia, che vien disposta da lui le qualità della madre, Agens enim semper sibi quaerit assimilare passum etc. 1. de Generatione tex. 51. in prova di che ho veduto io stesso in Palo terra del Regno di Napoli un Negro della Guinea, il quale havendo sposata una donna bianca di quel paese, di due figliuoli, che n’havea havuti, l’uno era nero come lui, e l’altro bianco come la madre.
I Telesiani dicono, che i semi del padre, e della madre si confondono, e che alle volte il seme della madre forma la faccia del figliuolo maschio, e alle volte quello del padre il volto della femmina, ma che però il nascere maschio, o femmina procede dalla qualità del calore d’ambedue i semi confusi. E questa fu anche opinione d’Empedocle da Aristotile riferita nel 3. capo della generazione de gli Animali; e veramente ella pare probabile assai, avvegna che non sia vero, che sempre il seme della donna concorra.
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PERCHE’ L’HUOMO NON CI VEGGA DI NOTTE, E ALCUNI ALTRI ANIMALI SI’
L’huomo non ci vede la notte, se non luce la Luna, cosa che non interviene a molti altri animali, alcuni de’ quali ci veggono meglio di notte, che di giorno, come i gatti, e le civette.
La pupilla dell’occhio umano è quella, che riceve le spezie delle cose, e che distingue gli oggetti secondo la varietà de’ colori, sotto i quali le s’appresentano: e quanto più sono da lei diversi, tanto meglio vengon distinti: e quanto più s’assomigliano al color, ch’ella tiene, tanto peggio li conosce, e discerne. Come si vede in prova, che due neri, o due bianchi messi l’un sopra l’altro, non si distinguono bene. E che certi, che nascono con gli occhi tutti bianchi, s’abbagliano nella neve, perchè il colore della pupilla è simile a quello dell’oggetto visibile, e due colori simili, si confondono insieme. Così gli animali, che hanno la pupilla nera, come gli huomini, ordinariamente non vi veggono la notte, perchè il color delle tenebre è l’istesso con quello della pupilla: e due neri si confondono l’uno coll’altro, nam intus existens prohibet extraneum, Come disse il Filosofo nel 2. dell’Anima. Però quando sentiamo dire, che alcuni ci veggono di notte, come scrivono, che faceva l’imperator Tiberio, bisogna credere, che la pupilla dell’occhio di questi tali non sia di color nero. Per distinguere adunque bene gli oggetti non bisogna, che la pupilla dell’occhio sia dell’istesso colore; anzi quanto più il colore sarà differente dal suo, tanto meglio saranno distinti. Quindi è che‘l bianco si distingue eziandio nelle tenebre; perchè oltre l’esser pieno di luce, è anche di contrario colore alla pupilla nera. E i gatti, e le civette ci veggono meglio la notte, che’l giorno, perchè hanno la pupilla gialla, e ricevono gli oggetti neri senza confondere i colori; e in contrario s’abbagliano nella luce del giorno, perchè hanno gli occhi simili al color della luce; e la virtù visiva debole, e fiacca, per esser troppo diffusa nella straordinaria grandezza dell’occhio; oltre che gli occhi loro sono poco concavi, e grossi; che anche negli huomini suole essere indizio di debole, e corta vista.
Ma perchè l’occhio umano s’abbagli a mirar nel Sole, e non s’abbagli quello dell’aquila; la ragione può venir dall’oggetto violento, che confonde, e superchia la virtù debole dell’occhio umano, e non superchia quello dell’aquila, che ha la virtù più unita e più forte. Oltre che quello dell’aquila che ha lo schermo d’un superciglio molto rilevato, sì che la forza del Sole non può intieramente dominarlo, come quello dell’huomo. Io mi ricordo d’haver veduta l’anotomia dell’occhio dell’aquila in Bologna in casa dell’Aldrovando lettor famoso di quello studio, e non vi fu osservato altro, che un umor cristallino molto lucido, e chiaro, con un superciglio rilevato in maniera, che ricopriva l’occhio; Onde fu creduto allora, che da questo procedesse il mirar fiso, che si dice dell’aquila nel Sole senza abbagliarsi; cioè che veramente ella non s’affisi nel Sole; ma che così paia, perchè con l’aiuto del superciglio ella tiene gli occhi rivolti in lui.
PERCHE’ FRA GLI ANIMALI, CHE NON HANNO PENNE, L’HUOMO SOLO CANTI, E CAMMINI SU DUE PIEDI
Ne gli animali terrestri, che non hanno piuma, predomina la terra in guisa, che giammai da essa non si sollevano, ma continuamente sopra la faccia sua inclinati camminano con quattro piedi, o con tutto il corpo serpeggiando; e per questo mancano ancora di canto, non havendo la terra, che un moto solo per accidente, quando viene levata del luogo suo; immobile per natura, ed elemento si può dir muto, come quello, che da se stesso non rende mai suono alcuno. Solo l’huomo, perchè partecipa più del celeste, e dell’aereo, si solleva, e su due piedi colla faccia verso il cielo cammina, parla, canta, e forma varie voci; come fanno ancora gran parte de gli uccelli, i quali essendo predominati dall’aria, ricevono da quello elemento facultà non pur di camminar su due piedi, ma di volare, e di cantare, havendo l’aria diversi moti, e piegandosi in varie guise; di sorte, che da lei sola riconosciamo i canti, i suoni, e la varietà delle voci, come ne’ corni, ne’ flauti, nelle trombe, ne gli organi, e in altri tali stormenti chiaramente si vede, ne’ quali l’aria è quella, che forma il suono; come per lo contrario i pesci, perchè non si servono d’aria, sono animali muti, che così anche tenne Aristotile nell’88. del 2. dell’Anima. Potrebbesi dubitare del canto delle rane; ma quello non è veramente canto, come canto non è il ragghiar de gli Asini, nè l’abbaiar de’ cani. Il Cardano nel 7. De rerum varietate, disse, Quod dulcis sonus non sit nisi in sicco. e che perciò i quadrupedi, e i pesci non cantavano per l’umidità loro. Al che si risponde, che ben è vero, che gli stormenti secchi rendon più forte il suono, perchè l’aria trova nell’incontro resistenza maggiore; ma la dolcezza del suono nasce dalla proporzione dell’aria, che percuote, e dal modo vario, e raggirato, con ch’ella percuote: e però l’attitudine della gola, e la velocità della lingua, in che particolarmente prevaglino gli uccelli piccioli, e l’huomo, sono principal fondamento, come fu similmente tenuto da Aristotile nel trattato De obiecto auditus, sive de audibilibus.
IN CHE LINGUA FAVELLEREBBE UN FANCIULLO, CHE NON AVESSE SENTITO MAI FAVELLARE
Vantavansi gli Egiziani (come scrive Erodoto nel principio dell’Euterbe) d’esser la più antica nazione del mondo: e durò questa loro credenza fino al Regno di Psammetico, il quale mosso da curiosità, come sogliono i principi grandi, in questa maniera volle vederne la prova. Prese due bambini di bassa stirpe nati di fresco, e fecegli allevare in maniera, che non udirono mai voce umana articulata d’alcuna sorte; quando furono in età di poter favellare, fattili condurre al suo cospetto, stette attendendo le voci, che proferissero, e ambidue s’accordarono in questa sola (Bech) la quale in lingua d’Egitto non fu intesa da alcuno, ma in lingua Frigia fu interpretata pane. Onde poi sempre i Frigi furon stimati più antichi, e nobili de gli Egiziani: E questo medesimo il conferma Giovanni Tzetze nella seconda Storia della quarta Chiliade. Ma S. Girolamo, e Origene (come riferisce il Sibilla nella 3. parte delle questioni sue) scrissono di concerto, che un fanciullo allevato in maniera, che non udì mai voce d’alcuna nazione, quando fu in età da poter favellare, proferì da sè queste due Ebree (Lehem) che vuol dir pane, e (Yain) che significa vino. Io quanto a me, dando a così fatte Storie pochissima fede, sono d’opinione, che un fanciullo allevato nella maniera già detta, non proferirebbe voce, che s’intendesse da nazione alcuna del mondo: e argomento da’ sordi nati, i quali parimente tutti riescono muti, (come tenne anche Aristotile ne’ libri dell’Istoria de gli animali) e muti di sorte, che non proferiscono voce alcuna, che s’intenda nè da Egiziani, nè da Frigi, nè da Ebrei, nè da sorte alcuna di gente; dove se potessero udire, apprenderebbono ancora di favellare, essendo il principio del loro male nell’istromento dell’udito, e non in quello della favella. E questa fu anco opinione d’Alessandro Afrodiseo nel 138. del primo libro de’ suoi Problemi, ove disse de’ sordi nati, che riescono muti. Quoniam quae numquam audierunt, haec fari nequeunt, etc. Nè vale il dire, che l’istinto naturale spingerebbe a favellare in quella lingua, che fu la prima usata nel mondo: poichè noi teniamo per fede, che questa fusse l’Ebrea, e nondimeno i sordi nati non proferiscono mai voce Ebrea.
Anzi cred’io, che dieci, o dodeci fanciulli allevati insieme senza udir voce altrui non resterebbono muti, ma quando fossero in età, proferirebbono voci nuove, non intese da altri, che da loro, e formerebbono un linguaggio da sè, strano, e inaudito a tutte le nazioni del mondo; e che quante decine di fanciulli n’allevassero in tal maniera, tanti linguaggi nuovi si formerebbono, non havendo le cose altro nome, che quello, che vien loro imposto dal beneplacito nostro.
PERCHE’ GLI HUOMINI SIANO PIU’ PRUDENTI DI TUTTI GLI ALTRI ANIMALI
Aristotile nel 3. Problema della sezione 30. attribuì la cagione di questo all’haver l’huomo più picciolo il capo di tutti gli altri animali; allegando, che anche tra gli huomini quelli, che hanno più picciolo il capo, sono più prudenti de gli altri; il che inteso, come par che suonino le parole, è falsissimo; ed egli stesso altrove nella Fisonomia disse, quod qui magnum caput habent, sensati sunt, etreferuntur ad canes. E Melezio nel lib. De natura hominis; Qui igitur exiguo capite praediti sunt, flagitiosi cerebri indicium ostendunt. E Palemone Ateniese, De signis naturae, cap. 2. Caput valde parvum, stultitiae, et imprudentiae signum est. Oltr’a questo è chiaro, che l’huomo a proporzione non ha più picciolo il capo de gli altri animali: anzi non ve n’ha alcuno, che a proporzione habbia più cervello di lui, il che non può essere senza la corrispondenza della capacità del vaso. Che se la picciolezza del capo fosse argomento di prudenza ne gli animali, il Cammello, e lo Struzzo sarebbono più prudenti di tutti; dove in contrario dello Struzzo si legge, che egli è sì sciocco, che si scorda, e abbandona l’huova, partorite che le ha, nè le cova, se non si torna per sorte ad avvenire in esse. Ma Piero d’Abano sciolse questo nodo, dicendo, che’l capo in due maniere può intendersi, cioè, o tutta la massa della testa, o quella parte sola che racchiude il cervello. Se della seconda intendiamo, il capo grosso è ottimo segno; perchè dinota cervello abbondante con tutti i ventricoli ben disposti. Ma se intendiamo della prima, senza dubbio è cattivo; perchè certi tempioni colle mascelle d’asino sogliono tutti haver dello stolido, e del balordo. E per questo Aristotile anch’egli nel già allegato luogo della Fisonomia disse, quod qui parvum caput habent, insensati sunt, et referuntur ad asinos; perciochè veramente gli asini hanno acuto il capo dalla parte di sopra, e picciola la cassa del cervello, benchè tutta la massa della testa sia molto grande. Ma per venire al punto del quesito da noi proposto; da diversi rispetti procede, che l’huomo sia più prudente di tutti gli altri animali, e prima dell’universal temperamento di tutto il corpo, che nell’huomo è di gran lunga più perfetto, che ne gli altri animali; Secondariamente dalla particulare temperie del cervello dell’huomo, che più de gli altri pende nel freddo, e secco, da che suol nascere la bontà, e sottigliezza de gli spiriti discorsivi, e intellitivi; Terzo dalla quantità del proprio cervello dell’huomo, che supera quella d’ogni altro animale in proporzione; onde l’anima può molto meglio tutte le sue operazioni esercitare in esso. Quarto, e ultimo, dalla piccolezza del capo, cioè di quella parte, che circonda la cassa del cervello, la quale essendo asciutta, breve, e ristretta, non rintuzza, nè opprime con la quantità della materia rozza, inutile, e grossa, la parte spiritosa, e sottile. E però quand’anche l’huomo non havesse il vantaggio dell’intelletto, parte immortale, e divina, sarebbe in ogni modo più aveduto, e sagace, di tutti gli altri animali.